Quando iniziai ad occuparmi di consulenza organizzativa mi ritrovai di fronte alla sfida di portare ai miei clienti gli strumenti manageriali che avevo imparato sul fronte della gestione d’impresa, prima grazie agli studi universitari e poi lavorando in alcune importanti realtà multinazionali.
Mi apparve subito chiaro quanto fosse necessario il coinvolgimento vero e pieno di chi governava l’azienda perché il cambiamento organizzativo potesse attecchire davvero cambiando la cultura aziendale e assicurando l’efficacia nel tempo dell’intervento formativo o consulenziale. Anzi, da allora ho maturato la convinzione di quanto sia fondamentale che il primo attore a mettersi in gioco sia il committente stesso: l’imprenditore. Il rischio altrimenti è quello del boomerang, ovvero di promuovere pratiche che poi vengono smentite da chi governa l’azienda creando maggiore frustrazione sia da parte dell’imprenditore che da parte dei suoi collaboratori.
Le prime esperienze mi permisero fin da subito di comprendere che ci sono due modi di fare consulenza. Il primo consiste nel portare strumenti e soluzioni a problemi operativi, dando risposte alle domande e ai bisogni espressi dai clienti rispetto al portare metodo. Il secondo consiste nell’accompagnare l’organizzazione ad approfondire quei bisogni ed imparare a trovare soluzioni. In pratica la scelta è tra dare il pesce o insegnare a pescare.
Dare il pesce è un modo più veloce e apparentemente capace di produrre migliori risultati, con l’effetto di avere ottime soluzioni specifiche per il problema da affrontare e la conseguenza di lasciare le organizzazioni incapaci di gestire e risolvere autonomamente i problemi.
Insegnare a pescare, invece, vuol dire insegnare alle aziende e a chi le guida la capacità di gestire efficacemente i propri problemi, oltre che i consulenti impiegati per portare informazioni e soluzioni operative da implementare.
la prima è quella dell’esperto, dello specialista che sa dare le risposte alle domande del cliente
la seconda è quella dell’accompagnatore, del facilitatore che provoca facendo domande, stimolando il cliente a trovare le sue risposte.
Quando lessi La Consulenza di processo, di Edgar Schein mi riconobbi subito. Quest’ultimo era l’approccio che stavo cercando di consolidare.
Nel primo caso, la consulenza più tradizionale dell’esperto si fonda sull’autorevolezza data dalla conoscenza, dall’esperienza. L’esperto non può trovarsi in fallo. Deve essere il più aggiornato, il migliore. Può essere diplomatico ma tende sempre a doversi mettere su di un piedistallo, fatto anche di forma.
Nel secondo caso conta prima di tutto la capacità di entrare in relazione con il sistema e le persone che si vogliono aiutare, la capacità di creare un clima di fiducia basato prima di tutto sull’empatia e la condivisione del problema e del percorso per risolverlo.
Gli imprenditori sono al centro di un sistema complesso, anzi di tre sistemi che si intersecano, si sovrappongono e spesso si con-fondono: la famiglia, la proprietà e l’impresa.
Questa complessità implica che l’imprenditore trova soluzioni ottime, viste dalle diverse prospettive di chi gliele offre: il fiscalista, l’esperto di diritto societario o familiare, lo psicologo o il terapeuta di famiglia, il consulente di direzione, magari esperto di una specifica funzione aziendale, dal marketing all’amministrazione, dalla gestione delle persone al controllo di gestione e ai sistemi informativi.
Gli esperti sono tanti, ognuno per la sua parte offre agli imprenditori soluzioni utili per il governo delle loro imprese di famiglia.
Quello che abbiamo creato e stiamo continuando a sviluppare in FBU è invece un approccio da consulenza di processo, non esperti di qualche specifica area ma come dico sempre, “orgogliosamente tuttologi”, dove il nostro obiettivo è aiutare chi è al centro dell’impresa e della famiglia a combinare input diversi e trovare la soluzione ottimale per l’intero sistema.
Questo richiede però di accettare di vivere nell’incertezza, di non dover dimostrare nulla, di mettersi davvero al servizio del cliente: noi di FBU lo chiamiamo approccio autentico.
Lo dice bene un altro autore che nel nostro percorso abbiamo trovato in piena sintonia con il nostro approccio, Patrick Lencioni, che nel suo Getting Naked ha sintetizzato con tre grandi principi:
Mettersi sempre in gioco, senza farsi il problema di sembrare troppo ingenui o impreparati. Attivare la conversazione sapendo di poter sbagliare e poter correggersi, così da creare un clima di apertura che aiuti tutti gli interlocutori a mettersi in gioco. Non aver paura di ammettere i propri errori e sorriderne.
Aver sempre un approccio di servizio, cercando di dare valore fin dal primo momento di contatto, senza la preoccupazione di avere prima un contratto. Avere il coraggio di affrontare i temi spinosi, quelli che spesso si tende a voler evitare per non trovarsi coinvolti in questioni troppo complicate. Nel nostro lavoro molto spesso la cosa più difficile è dire che il re è nudo. E lo possiamo dire solo se siamo autenticamente interessati al bene dei nostri interlocutori e non siamo preoccupati delle loro reazioni se diciamo qualcosa di poco piacevole. Implica saper coinvolgere gli altri, integrare le esperienze e le competenze di chi è in azienda e come consulenti possiamo integrare il quadro senza gelosie e paure di perdere un rapporto privilegiato.
Coltivare sempre un clima di grande rispetto per chi si rivolge a noi e che spesso teme di essere giudicato. Non siamo chiamati a giudicare ma a metterci umilmente a disposizione, sapendo onorare quanto i nostri clienti hanno saputo costruire con il loro lavoro. Mettersi a fare quello che c’è da fare, senza paura di sporcarsi le mani, ci fosse da fare un report o delle fotocopie.
Questo è quello che affrontiamo nel nostro Practitioner FBU 2020, un percorso dedicato specificamente per chi lavora già con gli imprenditori e le imprese di famiglia e per chi voglia dedicarsi a questo mondo tanto difficile quanto entusiasmante.