di Fabrizio Bedin
“L’azienda è un’istituzione sociale ed in quanto tale ha un diritto di cittadinanza che la rende meritoria di tutela e, in alcuni casi, di sostegno. Questo stesso diritto le impone di soddisfare determinate aspettative che la comunità a cui appartiene ha nei suoi confronti, attraverso il rispetto delle regole etiche e l’attuazione di comportamenti solidali”
Non sono state parole ordinarie quelle pronunciate da Amartya Sen durante il ricevimento del premio Nobel per l’Economia nel 1998, in quanto volgeva lo sguardo verso un futuro che di lì a poco si sarebbe palesato in modo dirompente. Il premio Nobel parlava di un’etica volta a ricomprendere la globalità delle organizzazioni, ponendo la prospettiva oltre ogni confine che tendesse a limitare una qualsivoglia inclusione del mondo imprenditoriale.
E quindi, perché noi invece ci focalizziamo sulle aziende di famiglia quando la responsabilità sociale dovrebbe essere base di un bene ben più esteso?
Il perché ci viene consegnato anzitutto dai numeri, da sempre validi alleati per tentare di contestualizzare le nostre riflessioni. Le imprese familiari, infatti, in Italia sono oltre l’80% delle organizzazioni aziendali, fatturano oltre 250 miliardi di euro e hanno un peso che copre circa il 15% del PIL. Questi dati ci fanno capire la loro importanza ma, ancora di più, ci fanno comprendere la forza che hanno nel momento in cui incrociano il pensiero di Amartya Sen.
Inoltre l’attuale contesto storico ci sta consegnando una consapevolezza ben più strutturata su cosa si intenda per responsabilità sociale d’impresa, riponendo la stessa in un concetto più ampio che viene contenuto nella parola “sostenibilità”. Quello che a volte non è ben evidente è l’identificazione più puntuale di questa idea di sostenibilità, che si esprime nei valori fondanti delle aziende di famiglia, che sono naturalmente rivolte a viverne la sostanza.
Le imprese di famiglia, infatti, muovono i loro passi guardando anzitutto al rapporto con l’ambito territoriale in cui operano (stakeholder esterni con tipicità di tipo sociale, economico e ambientale), andando ulteriormente a stabilire con ogni collaboratore una dimensione che è volta ad una reciprocità tesa a soddisfare le esigenze di entrambi. Queste peculiarità definiscono una caratterizzazione sostanziale di queste realtà aziendali, anche se non sempre organizzata o pienamente cosciente. Quello che spesso viene a mancare è proprio la consapevolezza strutturata di questi aspetti: una rendicontazione di sostenibilità aiuta a ricomporli ponendoli in evidenza fin da subito.
Una delle cose che più mi ha colpito durante il percorso Practitioner proposto da Family Business Unit (che mi sento di consigliare a chiunque abbia interesse e passione nel lavorare con i business di famiglia) riguarda i principi che accomunano le principali rendicontazioni con quelli dei quattro quadranti di FBU: persone, organizzazione, scopo, numeri. Entrambi pongono i fattori valoriali come pilastri fondanti delle imprese, componendo una base chiara e trasparente che aiuta a orientare le azioni di governance.
Non solo, la loro esplicitazione è ancora più rilevante nel momento in cui un’azienda incontra una fase di espansione o crescita, in quanto l’avere definito i pilastri su cui poggiare lo sviluppo imprenditoriale può preservare da rischi di azioni inadeguate, accompagnando invece i manager in un percorso con dei confini più chiari e naturali per la realtà che sono chiamati ad amministrare.